Il 6 luglio 1535 veniva giustiziato Thomas More
Un dialogo chiamato coscienza
Pubblichiamo alcuni stralci di una conferenza tenuta a Roma, all'Istituto diplomatico di Villa Madama, dall'arcivescovo segretario della Congregazione per l'educazione cattolica.
di Jean-Louis Bruguès
Poco tempo dopo essere salito al trono, Enrico VIII aveva sposato Caterina d'Aragona, la quale era stata già la moglie di suo fratello maggiore, Arturo. Gli diede cinque figli, ma una figlia soltanto sopravvisse, Maria. Enrico aveva quindi una doppia preoccupazione. Aveva bisogno di un figlio allo scopo di assicurare in Inghilterra il futuro della dinastia che, ricordiamoci, aveva appena ottenuto il trono nella persona di suo padre Enrico vii, e rimaneva quindi fragile. Aveva bisogno di un successore energico per portare avanti la sua opera di "levatrice" della nazione inglese. Secondo la mentalità dell'epoca, una figlia sembrava incapace di avere una tale autorità.
L'ironia della storia ha voluto che il suo unico figlio, Edoardo, lasciasse solo un ricordo insignificante, mentre la sua seconda figlia, la grande Elisabetta, con mano di ferro ha fatto entrare l'Inghilterra nel concerto delle nazioni moderne.
Enrico VIII "deve" quindi ripudiare sua moglie. Aspetta dal Papa una dichiarazione di nullità del suo matrimonio; Clemente vii si rifiuta, o piuttosto fa trascinare le cose per le lunghe.
Il re persiste nei suoi progetti. È allora che un membro del Parlamento molto influente e molto abile, Thomas Cromwell, lo convince a seguire l'esempio dei principi tedeschi e separarsi di Roma.
Nel 1531, Enrico si proclama capo supremo della Chiesa d'Inghilterra. Thomas More restituisce i sigilli il 16 maggio 1532. Il 12 aprile 1534, viene convocato a Lambeth per prestare giuramento di fedeltà all'Atto di Supremazia che riduce l'autorità del Papa e conferma il divorzio del re. Thomas, però, rifiuta per due volte.
Non è tanto la questione del divorzio ciò che preoccupa la sua coscienza, ma la scissione della Chiesa e il tradimento di Roma che gli viene richiesto. Interpella il procuratore generale, sir Richard Rich, a cui aveva prestato grandi servizi nel passato: "Supponete - disse More - che il Parlamento faccia una legge affermando che Dio non sia Dio, lei direbbe, procuratore Rich, che Dio non è Dio?", "No, signore - rispose il procuratore - non lo direi, ma nessun Parlamento farebbe mai tale legge". "Ebbene - replicò More - il Parlamento non può neanche fare del re il capo supremo della Chiesa".
More fu condannato per alto tradimento e morì sul patibolo il 6 luglio 1535. Thomas More è stato sempre fedele al suo affetto verso il re; è stato fedele alla politica di quest'ultimo, che voleva riunire i popoli dell'isola in una nazione potente. Un giorno, queste fedeltà si sono trovate in opposizione con una fedeltà che More stimava superiore, la fedeltà alla propria coscienza.
La parola coscienza appare per ben diciassette volte nel suo ultimo scritto in forma di testamento. Per un cristiano, la coscienza non è soltanto quel luogo intimo dove l'uomo delibera con se stesso prima di prendere una decisione morale; essa è l'elevazione dell'essere che permette all'uomo di giudicare con la conoscenza propria di Dio.
Come scriverà tre secoli più tardi John Henry Newman, un altro inglese che la Chiesa si prepara a beatificare: "La coscienza implica una relazione tra l'anima e qualcosa di esterno, molto di più, di superiore a essa; una relazione con una perfezione che essa non possiede, con un tribunale sul quale essa non ha nessun potere". È la voce stessa di Dio che, entrando nel cuore dell'uomo, gli indica la via del bene e della verità. Per More, questa stessa voce gli mostra che la fedeltà a Cristo, promessa di ogni battesimo, implica la fedeltà a Roma dove siede il Vicario di Cristo.
Insomma, More si iscriveva nella lunga litania dei martiri della coscienza. A partire dalla piccola Antigone che dichiarava al suo re che esistevano delle "leggi sussurrate al cuore" (Sofocle) che superavano le leggi della città, e che era meglio obbedire a esse, a costo di morire, i testimoni di questa libertà suprema sono stati una legione, che si sono sollevati contro i totalitarismi di tutte le specie.
Il rischio non è minore ai nostri giorni. Nelle società secolarizzate, dove l'ipotesi di una qualunque trascendenza è esclusa dalle scelte collettive, c'è il grande pericolo di lasciar credere di nuovo che non esiste niente al di sopra delle leggi della città. Questa è sempre stata la pretesa dello Stato di assoggettare le autorità morali, o di farle tacere, per attribuire a se stesso un'autorità morale assoluta.
I primi martiri cristiani ne sapevano qualcosa, poiché furono messi a morte per ragioni politiche, e non religiose. La coscienza ci suggerisce che ciò che è legale non è necessariamente legittimo, e che esistono delle circostanze nelle quali la dignità e la libertà della persona la spingono a fare obiezione, perfino a insorgere. Max Weber affermava che, quando si trovano in opposizione, l'etica della convinzione (personale) deve sempre inchinarsi davanti all'etica della responsabilità (incidenza collettiva). Il cristianesimo crede l'inverso: la dignità dell'uomo gli intima l'ordine di seguire la sua coscienza fino in fondo.
Per Thomas More esiste in ciascuno di noi un organo meraviglioso che ci rende superiori alle leggi politiche. È questo organo che fa di noi degli esseri liberi.
(©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
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